LA MAI SPOON RIVER

lunedì 20 marzo 2017

Carlo Chirio

Che dire Schirio? … è stata una strana combinazione essere a Limone proprio il giorno del tuo ultimo (?) volo. E non solo, ero proprio sopra di te, al Morel. Me ne stavo al sole con Lara. Ci godevamo la splendida giornata, quell’azzurro così intenso che c’è solo in montagna e il bianco della neve. E poi c’erano certe nuvole candide che decoravano il cielo in continuo movimento. Abbiamo sentito l’elicottero, e ci siamo dette che sicuramente erano due che si erano scontrati, che già al mattino ne avevamo visti di quegli imbecilli che con tutto lo spazio che c’è….
Comunque, dopo un po’ mi telefona Mariano e mi dà la notizia. Devo essere sincera, e so che tu la sincerità l’apprezzavi anche quando era brutale, dopo la sorpresa iniziale non è che mi sia salito il dolore, un po’ di dispiacere sì. In fondo noi non ci si parlava più da anni, dopo quel litigio furibondo in negozio, io più pazza e iraconda di te, da vedere rosso sangue e perdere il lume della ragione all’istante. Due caratteri difficili, i nostri. E non siamo più riusciti a riavvicinarci. Ci tenevamo prudentemente a debita distanza. Forse proprio nei miei ultimissimi mesi a Limone abbiamo condiviso uno spazio ristretto e uno sguardo benevolo.
E poi, con tutto quello che hai combinato nella tua vita “spericolata”, ti avevo dato per morto già da un pezzo! Anzi che quasi quasi mi sorprendevo a pensare che tu fossi anche capace di scombinare le statistiche scientifiche relative alla tua “categoria”, e a questa parola sono certa che saresti saltato su  e mi avresti insultato ben bene in uno dei tuoi soliti modi coloriti e irripetibili.
A proposito di coloriture e originalità, ricordo molto chiaramente quello stronzo di plastica che ai tempi del pub non perdevi occasione di farmi trovare ogni dove come se le parole non bastassero a esprimere il tuo sentimento. E quanto te la ridevi!
Ricordo un sacco di cose di te. Eri uno che lasciava il segno, nel bene e nel male. Il volo a Montecarlo, la tua guida che dire nervosa è un eufemismo, (sei stato l’unico, oltre a un innominabile qui, che è riuscito a farmi vomitare in macchina)… i libri di alpinismo, quelli scritti dai grandissimi scalatori e quelli di foto stupende. Come sapevi personalizzare un ambiente tu, pochi altri. Ci mettevi un sacco di roba, vita vissuta, miti, sogni. E in fondo è fatta di tutto ciò, la vita.
Comunque la sera sono venuta con Mariano a vederti. Lì con il retro X della Patagonia e la giacca arancione vecchia di decenni. La vestimenta perfetta per ogni occasione. E ti ho guardato ben bene. Avevi un’espressione sorniona, un sorrisetto dietro la bocca dietro gli occhi, non so bene dove, ma c’era, e diceva: ecco io ora sono di qua, e adesso sono cazzi vostri!


                                                                                                                                                          

giovedì 26 febbraio 2015

SCRITTURA BALSAMO DEL VIVERE

SCRITTURA BALSAMO DEL VIVERE

“Per ora il sollievo che mi procura scrivere queste righe è, sicuramente, un modo di sfuggire a questo scivolare verso il nulla che mi sta vincendo e che, disgraziatamente, mi risulta più familiare di quanto io stesso immagini quando lo evoco come qualcosa di trascorso senza lasciare traccia apparente.”
Ho scelto questo passaggio fra i tanti che avrei potuto scegliere da La Neve dell’Ammiraglio di Alvaro Mutis.
L’ho scelto senza rifletterci. Solo successivamente ho riconsiderato il passaggio, o meglio il tema in un ordine più personale, meno generico, filosofico-astratto. E ho riportato la scelta su di me e sull'ampio significato dello scrivere in relazione a me stessa e alla mia vita. Come per Marqoll, scrivere ha principalmente una valenza terapeutica, balsamica, lenitiva, addolcente, necessaria. Inoltre possiede la peculiare facoltà di focalizzare i pensieri e di penetrarli e decifrarli e tradurli. Di dare loro significato e senso e infine forma concreta di segno. E ancora, scrivere permette di affondare nell'intimità più profonda dell’ io, del mistero di chi e cosa siamo. Sensibilità, intelligenza, intuitività, precognizione, visione. Ciò che si è in essenza.
E di nuovo, scrivo, come Mutis, come Maqroll, nella mediocrità del mio passo, nel limite che mi è proprio, per sconfiggere questo scivolare verso il nulla, e dare sollievo all'inalienabile, inesorabile, irriducibile senso di solitudine. Di queste giornate che scorrono disertate dai sensi, dominate dalla noia, devastate dalla solitudine. Nella reiterata distanza dagli altri, incolmabile.  A cosa si riduce dopotutto la vita?, a pochi attimi d’inaspettata empatia, di breve sfioramento. Di labile contatto. Con altri esseri umani, con altri aspetti della vita. La natura, l’arte, la musica. Pochi momenti di collisione, di compenetrazione simbiotica, di fusione. Di cui ignoro totalmente l’origine, la formazione, la fonte. Una combinazione di forze chimiche, di sinapsi accese. Chissà, forse generate da richiami rimandi nostalgie ricordi. Di qualcosa di vissuto a pieno, inconsapevolmente. Un attimo di brivido lucente, ardente, vibrante, pulsante. O di benessere calmo, largo, caldo, confortevole. Del tepore di un nido sicuro. Nell'infanzia della vita, nell'infanzia dell’adolescenza.  A intervallare smisurati anni di silenzio. A dare tempo e misura. Oppure a toglierli totalmente.
Ho scelto Mutis, ho scelto Marqoll.
L’ammaliante scrittura di Mutis mi ha fatto scivolare nel viaggio onirico di Marqoll, in una metafora della vita fin troppo evidente. Ma è la magia del linguaggio che mi ha portato con sé e che ha avuto la meglio,  centrando la cifra del romanzo. Un viaggio che è una decisione sbagliata, un affare che non porterà a nulla. Fin troppo ovvio. Il viaggio e il suo scivolare attraverso la selva, nell'umidità soffocate e afosa. L’acqua fangosa copre il fondo oscuro ed emana odori nauseabondi, di vegetazione in putrefazione e di qualcos'altro che neppure si osa immaginare. L’odore melmoso indescrivibile della indios che lo ammala, la febbre del pozzo nero, la lotta fra la vita e la morte. L’ambiguo compagno di viaggio  rappresenta l’orrore di azioni disumane, compiute nell'indifferenza. La banalità del male, come sempre. Il comandante e il capitano riconoscono il Gabbiere, chi è, sanno perché è sulla barca, in viaggio verso la segheria. Sanno che sopravviverà, che è immortale.  Un attimo fuggevole di contatto. Niente di più. Niente di meno. Flor Esteves è la donna sognata, che non esiste. Anch'essa metafora dell’amore fantasma, di wallaciana memoria.
La miniera e il canyon sono i luoghi simbolici della profondità, della ricerca del sé.

Ma è scivolando col Gabbiere che sono entrata nel sogno, nel suo sogno,  nel suo procedere insensato e slabbrato, oppiaceo. Tutto è emotivamente contenuto, l’ansia, il disagio, il dolore. Faccio sogni strani che turbano il mio risveglio ma presto svaniscono. 
Sono anch'io dove non vorrei essere. Ho preso la direzione sbagliata, quella che porta al nulla.

sabato 8 marzo 2014

8 marzo 2014

 

8 marzo 2014



Penso alle donne di un secolo fa, che manifestavano coraggiosamente per i diritti femminili, soprattutto in America, dove ottennero il suffragio universale nel 1918. Indossavano ancora  gonne lunghe, castigate sotto i cappelli a tesa larga, artigliate all’ottocento. Ma bastò poco tempo e gli anni venti le videro trasformate, accorciarono gonne e  capelli, adottarono lunghi bocchini, abiti squadrati, lineari, "cubisti". Erano donne proiettate nel futuro, sull’onda della nuova velocità tecnologica e del primo Futurismo progressista. Un elite, certamente, come le donne bellissime dipinte da Tamara de Lempicka. Un lampo subito spento dall’antifemminismo fascista. Dopo la guerra la Costituzione Italiana garantì pari dignità sociale e pari diritti rispetto al genere maschile, ma il contesto sociale non era pronto ad assimilare tali diritti. La donna del dopoguerra era docile e remissiva, elegante e raffinata, tutte curve e vitino da vespa, guanti al gomito e gonne al ginocchio. Erano donne strepitosamente belle, la moda raffinata ne esaltava la femminilità. Penso alle donne procaci dei film anni cinquanta, penso a mia madre e alle sue amiche. Erano donne che facevano della bellezza la loro arma migliore tuttavia erano donne ancora totalmente subordinate all’uomo. Dedite alle mansioni domestiche e alla famiglia, oppure impiegate in lavori faticosi umili pericolosi sottopagati.  Fino agli anni sessanta in cui progressivamente l’emancipazione progredì, si accorciarono le gonne, si rivoluzionarono i costumi e la posizione all’interno della società cambiò radicalmente. Fu solo nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia che i principi costituzionali del ’48 divennero legge.

Io negli anni settanta ero una ragazza, non sono mai stata una femminista sfegatata, ma credevo nell’uguaglianza sociale e nell’emancipazione femminile a largo raggio. Eravamo un gruppo di amiche che a riguardarle oggi, a tanti anni di distanza, rappresentavano bene il loro tempo. Eravamo all’avanguardia. Ci muovevamo in gruppo, come un branco. Frequentavamo i locali notturni, osterie, discoteche, pub. Ci sentivamo forti, sicure ed eravamo il terrore della fauna maschile della zona, perché l’ironia, la presa in giro, la battuta salace, ridicolizzante erano il nostro linguaggio contro un mondo maschilista che resisteva radicato profondamente nei comportamenti e negli atteggiamenti sociali. Eravamo delle demolitrici di io maschili. Delle frantumatrici di identità virili, fagocitatrici di bulli arroganti, di bei tenebrosi, di patetici residuati dongiovanneschi. Si andava in discoteca e si ballava tutte insieme e il vortice energetico che si creava intorno a noi era una forza centrifuga da tornado. Eravamo le Erinni di una nuova era. Facemmo danni, non c’è dubbio. Gli uomini gli sceglievamo noi in un’inversione totale dei ruoli. Fare sesso era cosa facile. Ma eravamo pur sempre donne e se si cadeva in balia del sentimento eravamo vittime ridotte ad ameba, elucubranti all’infinito, nell’elaborazione impossibile dell’amore, in ogni sua forma. Penso che la mia generazione abbia giocato un ruolo di transizione importante, uno scatto nell’arco evolutivo che si spiega solo parzialmente con la variazione dell’ambiente contestuale. Figlie di un tempo che ha ribaltato e confuso i generi, mischiandoli.  Non so se nella combinazione migliore.

venerdì 21 febbraio 2014

LA MIA SPOON RIVER

MM


MM lo incontravi dappertutto, e se non incontravi lui, incontravi il suo nome e cognome, sempre, ovunque. Una presenza costante in paese. Faceva l’elettricista con piglio artistico, una vena comune a tutta la famiglia.

In lui si esprimeva nell’incostanza sul lavoro, che subiva battute d’arresto inesplicabili per poi repentinamente scattare in un’esplosione di attivismo irrefrenabile. Giorno e notte. Si tiravano fili, si avvitavano morsetti, si inserivano trasformatori, si completavano i quadri e il lavoro era fatto, tutto di un botto. Era un uomo piacente. Capello riccio portato lungo tipo anni settanta, viso regolare con grosse labbra sensuali. Gli occhi che diventavano una fessura quando rideva e le fossette strappa baci sulle guance. Era un uomo che amava le donne, MM. Le amava e le desiderava spassionatamente con una generosità  indulgente riguardo all’età, alla prestanza, alla bellezza canonica. Anche se poi sposò una donna piuttosto bella da cui ebbe una figlia. Di figli a dire il vero si sospetta ne avesse sparsi in giro un numero imprecisato. Era un inseminatore fertilissimo, un creapopoli a largo raggio. Nonché un amante instancabile e generoso.

Lo vedevi alla Lanterna in azione serrata. Un accerchiamento che partiva dal banco del bar, con il gomito appoggiato e un bicchiere di birra in mano, lumare intorno in cerca di una corrispondenza, sguardi diretti, sfacciati, nessuna ambiguità, nessuna obliquità. Riscuoteva un successo particolare con le svedesi e le danesi, le scandinave in generale. Eeeh ci sapeva fare, le trattava con dolcezza e considerazione e insieme con quella mascolinità da sardo doc che aveva conservato per intero. Con quella strusciante insistenza che le lusingava. Le ragazze eccitate dal libero pensiero vacanziero e dall’alcol libertino gli cadevano nelle braccia in men che non si dica. Coscienti o incoscienti che fossero, senza dubbio gaudenti, godenti, gioiosamente in vita. Uscire e fermarsi sotto uno dei passaggi ad arco nei vicoli del paese e spingersi contro il muro, in piedi, senza porre tempo alla fregola dominante era un passo conseguente. Oppure scivolare al piano di sotto della Lanterna, sempre semivuoto e buio, coi divanetti proprio lì in attesa per l’uso. Se l’urgenza ti costringeva a servirti dell’indegno bagno a metà scala, s’intravvedevano maneggiamenti, contorcimenti, movimenti inequivocabili.

Bisogna dire che la vera dimensione di MM era la vita notturna, tanto che e a un certo punto decise di riaprire la Crota, una sorta di taverna discobar sotto il ponte di Sant’Antonio che aveva subito varie gestioni fallimentari e che giaceva nell’umido delle sue pareti da anni. I lavori di bonifica e riqualificazione non furono sufficienti a mascherare il tanfo di umidità che aggrediva le narici non appena ci si entrava, insieme al freddo di un riscaldamento insufficiente reso più penetrante dal vuoto della piccola sala. Al bancone qualche limonese, i soliti nottambuli tiratardi, Gianni Catto, Dado, Brunbarba, Beppe con le narici sempre infiammate che si dilatavano come ad afferrare più aria fresca risanatrice, e le sentivi tirar su mentre in contemporanea il tic all’occhio destro gli faceva arricciare anche un poco il labbro, come se ci fosse un tendine che improvvisamente si contraesse su tutto il lato destro. Veniva da gestioni imprecisate di locali nelle Baleari, da glorie e vite calde e sfrenate, più belle, più dense, e si ostinava a indossare abiti che erano i residui di quelle vite, fra l’hippiesco e l’hawaiano che comprendevano un codino bisunto di capelli radi e strani cappelli fra il clown e il clochard, decisamente fuori luogo in un paesino di montagna. Era il fidanzato parassita di Irma, una delle sorelle di MM.

Allora si beveva gintonic o cubalibre, solo i viveur di un certo calibro si davano esclusivamente al whiskey liscio o con l’acqua a parte, se erano soli, ma se erano in compagnia la bottiglia di Ferrarino, di Berlucchi o di Moet era d’obbligo, a seconda di quanto valeva la conquista. A volte compariva Biba, con la cicatrice che gli attraversava la guancia destra, dall’angolo dell’occhio a quello della bocca. La bocca, una fessura livida, con gli angoli piegati in giù su una faccia scura. L’occhio arrossato e lo sguardo da duro. Le mani in tasca e la testa incassata. Un passato losco con un morto ammazzato al posto suo. Conti in sospeso che si portava dietro insieme a una pistola che si diceva non abbandonasse mai. Posizione strategica a controllare l’ingresso. Tutti sapevano che beveva solo Johnny Walker con acqua a parte e gli bastava un cenno o nemmeno quello per trovarselo servito. Non parlava. Beveva in silenzio e ricordava Humphrey Bogart. Fece una gran brutta fine. Lo trovarono morto sparato sulle colline di Arma di Taggia. Viveva da mesi all’aperto, quattro stracci, poche cose, un cartone sull’erba. Più solo di un cane.

A una cert’ora il dj metteva un boogie scatenatissimo e MM si rianimava all’improvviso come colpito da una scossa elettrica, acchiappava Irma e insieme si lanciavano in un ballo acrobatico ad alto livello di sincronismo. Un’esibizione che riscuoteva sempre un discreto successo, specialmente alla Lanterna dove la gente si fermava in cerchio ad ammirare le agili movenze e anche qualcos’altro. Irma in viso era identica a MM, gli stessi occhi lo stesso naso piccolo dritto con la punta teneramente rotonda spruzzato da una manciata di lentiggini e quelle stesse labbra turgide e sensuali rosso fuoco. Rosso fuoco come i capelli, una cascata di riccioli neorinascimentali lunghi come la schiena. E un corpo piccolo tutto curve generosamente esaltate dagli abiti attillati, un look da easy girl, un po’ kitch che mascherava una rara bontà e una certa ingenuità. Faceva la parrucchiera e il suo negozio si trovava proprio accanto al nostro pub. Una sua piega ti scolpiva i capelli per una settimana e anche due.

Entravo e mi sedevo su uno dei due divanetti da discoteca posizionati a elle proprio vicino all’entrata, sulla destra. Un 'dea di orientale, fra fiorami, incensi, buddha dorati dominava l’ambiente, saturo di profumi e odore di aria bruciata dal fon. Alle pareti dipinte di verde foglia e viola viola i quadri della sorella Daria, l’artista ufficiale della famiglia. Di un surrealismo new age mescolato a visoni oniriche simbolicamente esoteriche di cui non sapevo bene che pensare. Perplessa come tutta la clientela del negozio. Ne ricordo uno in particolare in cui due seni enormi dominavano una pianura desolata, piccoli uomini formica vi si arrampicavano. I seni erano a china, lo sfondo a pastello passava dal buio nebbioso sulla sinistra a un chiarore arancio cupo sulla destra come un sole malato che non riusciva ad emettere luce. Un quadro che trasmetteva una certa inquietudine. Daria, un passato di droghe psichedeliche per allargare mente e sensi, e un presente di anoressia da collasso. Diete macrobiotiche e preghiere fra il sacro e il profano. Se te l’incontravi non ti mollava più con le sue teorie spirituali alternative, le sue sofferenze strampalate e i suoi rimedi olistici. Magrissima, l’espressione della sofferenza incisa sul volto e sul corpo. Il tempo a scadere inciso negli occhi.

A volte compariva MM per aggiustare la parte elettrica di qualche attrezzatura, e lo guardavi stravaccarsi sul divanetto e starsene un po’ lì, col sorriso beato, a sonnecchiare, incurante delle clienti e delle chiacchiere. Poi si alzava strascicandosi lentamente per inginocchiarsi su prese e spine e indolente procedere alle riparazioni. Si percepiva evidente il legame affettuoso che univa i fratelli. Raramente capitava anche Aldo, il fratello elicotterista. In apparenza il più inquadrato, lontano dal resto della famiglia - era un militare, voglio dire, è ovvio che fosse inquadrato. Ma il futuro avrebbe rivelato che la vena artistica apparteneva anche a lui.

E vennero gli anni del sonno. MM perennemente con la palpebre pendenti si aggirava per il paese e i  locali notturni in uno stato di semiveglia straniante. I corteggiamenti perdevano determinazione, si allentavano fino all’abbandono. Fino all’abbandono fisico di un corpo che crollava all’improvviso. Lo si trovava addormentato ovunque e nelle posizioni più incredibili. Come quella volta che Maurizio e Luciano stavano scendendo a bere una birra all’Ippopotamo e  trovano MM in piedi sulla scala col cacciavite in mano appoggiato con la testa alla parete, bloccato lì, da un sonno rapido come la morte. Chissà da quando ci stava? Era andato a fare un lavoro …. C’era chi diceva che fosse perché non andava mai a letto, chi perché era affetto da una qualche malattia del sonno. Sta di fatto che fu un colpo di sonno che lo fece finire sulla rotonda di Cap d’Ail e passare dal sonno alla morte fu un attimo. Chissà se ebbe un istante di coscienza appena prima.

Al suo funerale la gente non stava in chiesa, non stava nella piazza davanti alla chiesa e nemmeno nelle stradine adiacenti.

Tutto il paese e la provincia sembravano vittime di uno stato di disorientamento da abbandono.

MM mancò come un albero, una casa, un vuoto nel paesaggio portato via da una piena improvvisa. Aveva 40 anni.

 

sabato 18 gennaio 2014

Charlotte


CHARLOTTE

Ieri Charlotte stava cucinando il pranzo, si è accasciata a terra, pochi secondi ed è morta. Un attimo ed è andata. Vonnegut direbbe, così va la vita. Semplicemente. Aveva 21 anni, era alta bella solare. Due gambe che non finivano più, il sorriso che illuminava tutto il viso e anche un po' intorno, una grazia naturale nel portamento. Una generosità spontanea. Una fiducia nella vita malgrado la sofferenza già vissuta.

L’ho vista bambina, l’ho vista ragazzina, l’ho vista giovane donna. Fare volontariato alla croce rossa, volontariato alla casa di riposo. Aiutare il padre rimasto infermo per anni a causa di un ictus.

Abitava al Fantino e me le incontravo spesso lei e sua sorella gemella Caroline lungo la strada romana, affiancate, il passo lungo e veloce. Caroline introversa, seria, lei sorridente, aperta. Ciao, ciao. Sembrava un po’ un uccello, un bellissimo airone.


Così va la vita.

 

domenica 15 dicembre 2013

                                                        LA MIA SPOON RIVER




1 - GIORGIO ERA GIORGIO DEL CAMINO

 

Giorgio era Giorgio del Camino, e Il Camino è una pizzeria sulla statale per la Francia. Quando io e Anna arrivammo a Limone Piemonte, ci dissero subito che se volevamo mangiare una pizza buona dovevamo andare da Giorgio del Camino, e noi ci andammo.

Entrare al Camino era un’esperienza: luci soffuse, palla a specchietti tipo discoteca roteante e multicolore, tavolini con separé e panche fornite di cuscini di tessuto floreale da tinello inglese, che doveva fare l’effetto montagna; lampadari a calottina dello stesso tessuto che terminavano con una leziosa frappettina. Musica pop di sottofondo. E quasi quasi ti sentivi a casa, a tuo agio, protetto dalla luce calda e dalla musica gradevole. Insomma, alla fine il kitsch non infastidiva, anzi.

Giorgio ti accoglieva con un’esplosione vocale modello imbonitore: Buoona seraaaa, come andiamoooo!!?? Moolto lieto di vederela signoraaaaaaaaaaaaaaaa. Un timbro di voce particolarissimo, acuto e rotondo insieme, con una nota metallica e una erre arrotata come qualcosa che gratta nel legno.

Il tutto a un volume di decibel indefinito, e il sorriso a 32 denti della sua grande bocca si dilatava fino a deformargli il volto. Accattivante, malizioso. Belloccio, biondino, lineamenti regolari, occhi nocciola, altezza media e … un misto di gestualità maschile e di mossette gay perfettamente amalgamate.

Giorgio era un tipo simpatico e faceva ridere con niente, bastava la tonalità della voce, la mimica e certe sue battute tipo: Pace e pene, signori, pace e pene -  Signori e signore, più gente c’è più animali si vedono -  Eh qui abbiamo le luci basse perché meno si vede meglio è - diventavano un condensato di humor esilarante. Dava da lavorare agli individui più inconsueti: fidanzatini proletari modello Pasolini, extracomunitari di ogni origine ed età, spiantati, drogati redenti o non ancora, ex detenuti, soggetti borderline di diverse tipologie, in una multietnia  assolutamente inusuale. E a tarda sera, meglio dire in piena notte o primo mattino, raccoglieva e sfamava una serie di persone: Franchina la gattara dagli occhi viola come Liz Taylor, Monique  che era Monique e basta per tutti i nottambuli della provincia e della costa, Elsa, detta anche Elsamerlino perché leggeva le carte, Teulin Buru che lavorava in ferrovia e che si era fatto fregare tutti i risparmi e diceva sempre, un giorno o l’altro mi do fuoco, un giorno o l’altro mi do fuoco, e tutti pensavano che chi lo dice non lo fa mai, e invece un giorno lo fece davvero. Lo trovarono bruciato a morte dentro la sua macchina nella stradina sopra la Puntza, subito dopo la galleria del Col di Tenda.  

Mangiavano e trascorrevano le ore del buio, mentre tutti gli altri, quelli normali, dormivano, a raccontare storie personali di vita vissuta con infiniti consigli/sconsigli da seguire e finivano immancabilmente a narrare storie esoteriche, di altre dimensioni, di masche, (sorta di streghe) e fuochi misteriosi, e fantasmi veri e apparizioni certissime, e reincarnazioni improbabili e buddismo impolverato e zen elementare. E astrologia sviscerata e comparata fino all’esaurimento psicofisico. Giorgio li/le lasciava dire, ma sul suo sguardo era dipinta bella limpida un’espressione scettica e disincantata da, io si che conosco il mondo.

Quando albeggiava se ne andavano a dormire le ore del giorno per rialzarsi di sera e vivere quelle della notte. Monique aveva una cinquantina d’anni, la minigonna inguinale, il decolté all’ombelico, il rossetto rosa rosa immancabilmente sbavato e una voce perennemente alterata dall’alcol.

Franchina faceva la parrucchiera in casa, era dotata di un certo estro, purtroppo di scarso senso del denaro. Un tempo bellissima, ora anch’ella cinquantenne (circa) delusa irrimediabilmente dagli uomini si dedicava con tutta se stessa a un numero imprecisato di gatti, di cui portava addosso le tracce indiscutibili che colpivano vari sensi.

Elsa aveva una capigliatura crespa e nera, cotonata in cima tipo anni sessanta, trucco pesante, abbigliamento ambiguo. Era stata sposata e aveva due figli. Da anni stava con un nuovo compagno di larghe vedute che non sindacava sulle sue abitudini e sui suoi orari.

 Giorgio era stato un bambino debole di petto e per questo  fu mandato a vivere a Limone dalla nonna. Anche se gracilino era impestato, dispettoso, una vera peppia, come si dice in limonese, e finiva per prendersele spesso e volentieri dai più grandi e grossi di lui, ma pareva non importargliene poi molto perché tornava sempre all’attacco imperterrito, interrompendo i giochi e intromettendosi a sproposito. Insomma, non si dava mai per vinto, aveva un carattere volitivo che gli giovò nella vita.

Quando dopo le medie andò a lavorare nel forno delle Francesine, imparò presto il mestiere, diventò abile e svelto e in poco tempo lavorava per due.

Signorina signorina, lo chiamava la gente, vorrei …  lui non ci faceva caso al genere, che importava? lui li "imbarbagliava" con la sua parlantina e nel frattempo fregava sul peso o abbondava rispetto alle richieste. Imparò a fare la pizza e a far di conto come un matematico dottore e a 20 anni, mostrando una precoce quanto audace intraprendenza che gli veniva da quel carattere volitivo dell’infanzia, aprì la sua pizzeria, (Il Camino, appunto.) Era il 1985, il boom dello sci era già un po’ in declino ma lui si accaparrava tutto il passaggio dalla pianura al mare e viceversa. E chi ci andava scendendo, ci tornava salendo. L’attività andava a gonfie vele e presto le lire corsero a fiumi nelle mani di Giorgio che iniziò a cercare i modi migliori per spenderle. Pensò bene d’insegnare il mestiere alla sorella Marisa, che era magrolina e aveva la sua stessa voce e se non la vedevi e la sentivi solo parlare ti veniva il dubbio se fosse lei o Giorgio. Le insegnò prima a fare le pizze, poi a maneggiare i soldi, e lui iniziò a scendere a Nizza sempre più spesso. All’inizio ci rimaneva due o tre giorni, dal lunedì al mercoledì. Ma con l’andare del tempo diventò  raro che tornasse anche solo per il fine settimana. Si comprò un appartamento nella zona del porto, vicino a piazza Massena.

Della sua vita in Costa Azzurra si sa poco. Viene facile immaginarlo in giro di notte per discoteche, night club, club prive, o lounge bar, fra champagne, whiskey e un roteare di ragazzi sotto alto grado d’eccitazione, luccicanti e ritmati dalla musica, in feste da paillettes e cotillon,  trascinate fino all’alba, densamente promiscue. Ma sono solo supposizioni. Magari conduceva una vita  moderata, se non morigerata. E poi a lui piaceva il limoncello, tutta un’altra storia. Di certo se la godeva, a modo suo. Man mano che scorrevano gli anni tornava a Limone con macchine sempre più lussuose e fidanzati sempre più giovani. Ci fu uno di questi fidanzati, in particolare, che negli ultimi tempi gli rimase al fianco più a lungo, era uno splendido ragazzo di colore, alto palestrato scultoreo. Ah, è bello quello, ripeteva Giorgio, eh si l’è propri bel, col sorriso furbo e con quel suo tono che dava l’idea di non prendere mai nulla sul serio. Sembrava avere imparato che nella vita è meglio non innamorarsi dei fidanzati, e infatti il suo amore andava tutto, e senza alcuna riserva, all’adorato carlino chiamato Matteo, che coccolava e viziava come un figlio e che vestiva firmato dal guinzaglio al cappottino.

L’ultima volta che ho visto Giorgio era proprio con Matteo che gli trotterellava grassottello al fianco, aveva il suo immancabile borsello di pelle color cognac stretto sotto il braccio e andava dritto verso la BRE. Mi ha fatto uno dei suoi contagiosi sorrisi e mi ha gridato: Ciao, eh, come vaaa? L’avranno sentito fino in piazza.
Poco dopo si è ammalato. Qualche mese di tira e molla e poi il male se l’è preso definitivamente. Aveva 46




venerdì 22 novembre 2013

Riflessioni su "La tristezza degli angeli" di Jon Kalman Stefansson.

Come già in Luce d'estate ed è subito notte, l'autore pone come tema di fondo quello della vita e della morte, perché viviamo? fa dire più volte ai personaggi nel suo raccontare. Dove vanno le risate, i pensieri, la personalità, le parole, le lacrime delle persone morte? Finiscono nel nulla più assoluto? Dove finiscono certe luci negli occhi dei bambini, così brillanti e vivide e limpide, dove finiscono i sorrisi delle ragazze, sulle labbra rosse e umide? Dove finisce l'intelligenza che strabilia, e l'amore, dove finisce l'amore? La vita delle persone a ben guardare è ben poca cosa, a volte è un percorso faticoso per compiere un dovere, come per Jens, il postino de La tristezza degli angeli, alto robusto possente, con la sua bella testa bionda e gli occhi azzurri come il ghiaccio, peccato per quel grosso naso, sarebbe stato proprio un bell'uomo. Jens che quando è al paese diventa un uomo debole, cede all'alcol e si lascia andare nella mollezza, nell'insensatezza. Non è più un uomo Jens quando è in paese, ma quando viaggia per portare la posta, allora si che dà il meglio di sé, soprattutto se il tempo è terribile e fa bufera e ti gela il corpo intero e avanzare contro il vento è una fatica immane, disumana, allora si che Jens diventa grande e un vero uomo, eroico, sfida le intemperie, sorretto da una virilità cieca, senza curarsi di morire e di lasciare soli i famigliari. Si tiene aggrappate le borse della posta e avanza, come un bisonte, come un essere disumano trasfigurato dal ghiaccio. Jens è il personaggio di un romanzo, tuttavia esistono persone così, che danno il meglio nelle situazioni più estreme, in guerra nelle catastrofi naturali, in situazioni di estremo pericolo dove la forza di resistere e procedere è fondamentale per rimanere in vita. Ci sono persone che diventano ubriaconi, fannulloni, incapaci perché non trovano un senso nella vita quotidiana, ma che in situazione di grave difficoltà si ergono sopra gli altri e sopravvivono e salvano e aiutano. Uomini che hanno un cuore grande come quello di un bue ma che rimane chiuso, privo di parole e di sorrisi.