LA MAI SPOON RIVER

domenica 15 dicembre 2013

                                                        LA MIA SPOON RIVER




1 - GIORGIO ERA GIORGIO DEL CAMINO

 

Giorgio era Giorgio del Camino, e Il Camino è una pizzeria sulla statale per la Francia. Quando io e Anna arrivammo a Limone Piemonte, ci dissero subito che se volevamo mangiare una pizza buona dovevamo andare da Giorgio del Camino, e noi ci andammo.

Entrare al Camino era un’esperienza: luci soffuse, palla a specchietti tipo discoteca roteante e multicolore, tavolini con separé e panche fornite di cuscini di tessuto floreale da tinello inglese, che doveva fare l’effetto montagna; lampadari a calottina dello stesso tessuto che terminavano con una leziosa frappettina. Musica pop di sottofondo. E quasi quasi ti sentivi a casa, a tuo agio, protetto dalla luce calda e dalla musica gradevole. Insomma, alla fine il kitsch non infastidiva, anzi.

Giorgio ti accoglieva con un’esplosione vocale modello imbonitore: Buoona seraaaa, come andiamoooo!!?? Moolto lieto di vederela signoraaaaaaaaaaaaaaaa. Un timbro di voce particolarissimo, acuto e rotondo insieme, con una nota metallica e una erre arrotata come qualcosa che gratta nel legno.

Il tutto a un volume di decibel indefinito, e il sorriso a 32 denti della sua grande bocca si dilatava fino a deformargli il volto. Accattivante, malizioso. Belloccio, biondino, lineamenti regolari, occhi nocciola, altezza media e … un misto di gestualità maschile e di mossette gay perfettamente amalgamate.

Giorgio era un tipo simpatico e faceva ridere con niente, bastava la tonalità della voce, la mimica e certe sue battute tipo: Pace e pene, signori, pace e pene -  Signori e signore, più gente c’è più animali si vedono -  Eh qui abbiamo le luci basse perché meno si vede meglio è - diventavano un condensato di humor esilarante. Dava da lavorare agli individui più inconsueti: fidanzatini proletari modello Pasolini, extracomunitari di ogni origine ed età, spiantati, drogati redenti o non ancora, ex detenuti, soggetti borderline di diverse tipologie, in una multietnia  assolutamente inusuale. E a tarda sera, meglio dire in piena notte o primo mattino, raccoglieva e sfamava una serie di persone: Franchina la gattara dagli occhi viola come Liz Taylor, Monique  che era Monique e basta per tutti i nottambuli della provincia e della costa, Elsa, detta anche Elsamerlino perché leggeva le carte, Teulin Buru che lavorava in ferrovia e che si era fatto fregare tutti i risparmi e diceva sempre, un giorno o l’altro mi do fuoco, un giorno o l’altro mi do fuoco, e tutti pensavano che chi lo dice non lo fa mai, e invece un giorno lo fece davvero. Lo trovarono bruciato a morte dentro la sua macchina nella stradina sopra la Puntza, subito dopo la galleria del Col di Tenda.  

Mangiavano e trascorrevano le ore del buio, mentre tutti gli altri, quelli normali, dormivano, a raccontare storie personali di vita vissuta con infiniti consigli/sconsigli da seguire e finivano immancabilmente a narrare storie esoteriche, di altre dimensioni, di masche, (sorta di streghe) e fuochi misteriosi, e fantasmi veri e apparizioni certissime, e reincarnazioni improbabili e buddismo impolverato e zen elementare. E astrologia sviscerata e comparata fino all’esaurimento psicofisico. Giorgio li/le lasciava dire, ma sul suo sguardo era dipinta bella limpida un’espressione scettica e disincantata da, io si che conosco il mondo.

Quando albeggiava se ne andavano a dormire le ore del giorno per rialzarsi di sera e vivere quelle della notte. Monique aveva una cinquantina d’anni, la minigonna inguinale, il decolté all’ombelico, il rossetto rosa rosa immancabilmente sbavato e una voce perennemente alterata dall’alcol.

Franchina faceva la parrucchiera in casa, era dotata di un certo estro, purtroppo di scarso senso del denaro. Un tempo bellissima, ora anch’ella cinquantenne (circa) delusa irrimediabilmente dagli uomini si dedicava con tutta se stessa a un numero imprecisato di gatti, di cui portava addosso le tracce indiscutibili che colpivano vari sensi.

Elsa aveva una capigliatura crespa e nera, cotonata in cima tipo anni sessanta, trucco pesante, abbigliamento ambiguo. Era stata sposata e aveva due figli. Da anni stava con un nuovo compagno di larghe vedute che non sindacava sulle sue abitudini e sui suoi orari.

 Giorgio era stato un bambino debole di petto e per questo  fu mandato a vivere a Limone dalla nonna. Anche se gracilino era impestato, dispettoso, una vera peppia, come si dice in limonese, e finiva per prendersele spesso e volentieri dai più grandi e grossi di lui, ma pareva non importargliene poi molto perché tornava sempre all’attacco imperterrito, interrompendo i giochi e intromettendosi a sproposito. Insomma, non si dava mai per vinto, aveva un carattere volitivo che gli giovò nella vita.

Quando dopo le medie andò a lavorare nel forno delle Francesine, imparò presto il mestiere, diventò abile e svelto e in poco tempo lavorava per due.

Signorina signorina, lo chiamava la gente, vorrei …  lui non ci faceva caso al genere, che importava? lui li "imbarbagliava" con la sua parlantina e nel frattempo fregava sul peso o abbondava rispetto alle richieste. Imparò a fare la pizza e a far di conto come un matematico dottore e a 20 anni, mostrando una precoce quanto audace intraprendenza che gli veniva da quel carattere volitivo dell’infanzia, aprì la sua pizzeria, (Il Camino, appunto.) Era il 1985, il boom dello sci era già un po’ in declino ma lui si accaparrava tutto il passaggio dalla pianura al mare e viceversa. E chi ci andava scendendo, ci tornava salendo. L’attività andava a gonfie vele e presto le lire corsero a fiumi nelle mani di Giorgio che iniziò a cercare i modi migliori per spenderle. Pensò bene d’insegnare il mestiere alla sorella Marisa, che era magrolina e aveva la sua stessa voce e se non la vedevi e la sentivi solo parlare ti veniva il dubbio se fosse lei o Giorgio. Le insegnò prima a fare le pizze, poi a maneggiare i soldi, e lui iniziò a scendere a Nizza sempre più spesso. All’inizio ci rimaneva due o tre giorni, dal lunedì al mercoledì. Ma con l’andare del tempo diventò  raro che tornasse anche solo per il fine settimana. Si comprò un appartamento nella zona del porto, vicino a piazza Massena.

Della sua vita in Costa Azzurra si sa poco. Viene facile immaginarlo in giro di notte per discoteche, night club, club prive, o lounge bar, fra champagne, whiskey e un roteare di ragazzi sotto alto grado d’eccitazione, luccicanti e ritmati dalla musica, in feste da paillettes e cotillon,  trascinate fino all’alba, densamente promiscue. Ma sono solo supposizioni. Magari conduceva una vita  moderata, se non morigerata. E poi a lui piaceva il limoncello, tutta un’altra storia. Di certo se la godeva, a modo suo. Man mano che scorrevano gli anni tornava a Limone con macchine sempre più lussuose e fidanzati sempre più giovani. Ci fu uno di questi fidanzati, in particolare, che negli ultimi tempi gli rimase al fianco più a lungo, era uno splendido ragazzo di colore, alto palestrato scultoreo. Ah, è bello quello, ripeteva Giorgio, eh si l’è propri bel, col sorriso furbo e con quel suo tono che dava l’idea di non prendere mai nulla sul serio. Sembrava avere imparato che nella vita è meglio non innamorarsi dei fidanzati, e infatti il suo amore andava tutto, e senza alcuna riserva, all’adorato carlino chiamato Matteo, che coccolava e viziava come un figlio e che vestiva firmato dal guinzaglio al cappottino.

L’ultima volta che ho visto Giorgio era proprio con Matteo che gli trotterellava grassottello al fianco, aveva il suo immancabile borsello di pelle color cognac stretto sotto il braccio e andava dritto verso la BRE. Mi ha fatto uno dei suoi contagiosi sorrisi e mi ha gridato: Ciao, eh, come vaaa? L’avranno sentito fino in piazza.
Poco dopo si è ammalato. Qualche mese di tira e molla e poi il male se l’è preso definitivamente. Aveva 46




venerdì 22 novembre 2013

Riflessioni su "La tristezza degli angeli" di Jon Kalman Stefansson.

Come già in Luce d'estate ed è subito notte, l'autore pone come tema di fondo quello della vita e della morte, perché viviamo? fa dire più volte ai personaggi nel suo raccontare. Dove vanno le risate, i pensieri, la personalità, le parole, le lacrime delle persone morte? Finiscono nel nulla più assoluto? Dove finiscono certe luci negli occhi dei bambini, così brillanti e vivide e limpide, dove finiscono i sorrisi delle ragazze, sulle labbra rosse e umide? Dove finisce l'intelligenza che strabilia, e l'amore, dove finisce l'amore? La vita delle persone a ben guardare è ben poca cosa, a volte è un percorso faticoso per compiere un dovere, come per Jens, il postino de La tristezza degli angeli, alto robusto possente, con la sua bella testa bionda e gli occhi azzurri come il ghiaccio, peccato per quel grosso naso, sarebbe stato proprio un bell'uomo. Jens che quando è al paese diventa un uomo debole, cede all'alcol e si lascia andare nella mollezza, nell'insensatezza. Non è più un uomo Jens quando è in paese, ma quando viaggia per portare la posta, allora si che dà il meglio di sé, soprattutto se il tempo è terribile e fa bufera e ti gela il corpo intero e avanzare contro il vento è una fatica immane, disumana, allora si che Jens diventa grande e un vero uomo, eroico, sfida le intemperie, sorretto da una virilità cieca, senza curarsi di morire e di lasciare soli i famigliari. Si tiene aggrappate le borse della posta e avanza, come un bisonte, come un essere disumano trasfigurato dal ghiaccio. Jens è il personaggio di un romanzo, tuttavia esistono persone così, che danno il meglio nelle situazioni più estreme, in guerra nelle catastrofi naturali, in situazioni di estremo pericolo dove la forza di resistere e procedere è fondamentale per rimanere in vita. Ci sono persone che diventano ubriaconi, fannulloni, incapaci perché non trovano un senso nella vita quotidiana, ma che in situazione di grave difficoltà si ergono sopra gli altri e sopravvivono e salvano e aiutano. Uomini che hanno un cuore grande come quello di un bue ma che rimane chiuso, privo di parole e di sorrisi.

mercoledì 13 novembre 2013

Tutti abbiamo bisogno delle parole

"Tutti abbiamo bisogno delle parole per esprimere ciò che abbiamo dentro. Mai come in questa occasione mi sono reso conto della profondità e della passione che la maggior parte di noi infonde nella propria vita interiore. I nostri legami hanno una forza spaventosa. I nostri amori ci travolgono, ci definiscono, cancellano i confini che ci separano dagli altri. Esilaranti equivoci, tormentose coincidenze, morti sfiorate, incontri miracolosi, ironie improbabili, premonizioni, dolori, sofferenze, sogni: ecco gli argomenti su cui hanno scritto gli ascoltatori. Ho imparato che non sono il solo a credere che più ci sforziamo di capire il mondo, più il mondo si fa elusivo e ingannevole. Per usare le parole eloquenti di uno dei nostri primi collaboratori, “ ci manca una definizione adeguata della realtà”. Paul Auster  - la prefazione a "Ho pensato che mio padre fosse Dio".
Mai parole furono più indicate a dare significato alla pulsione di esprimersi, di scrivere secondo il limite personale e secondo la passione e il sentire più profondo e identitario. E allora queste parole le faccio mie e le porto come incipit al mio blog, per ora inquietantemente immacolato.